Omissis…”- che appare utile richiamare, per l’esame del merito, i seguenti princìpi giurisprudenziali, ormai consolidati, in tema di responsabilità professionale medica, rilevanti nella presente controversia:
A) il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze; ne deriva che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario (v., da ultimo, Cass. 22.9.2015, n. 18610), pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. 14.6.2007, n. 13953);
B) in applicazione della normativa sui rapporti contrattuali (art. 1218 c.c.), il paziente, è tenuto a dimostrare, quale creditore della prestazione sanitaria, la conclusione del rapporto contrattuale e a dedurre l’inadempimento del debitore (Cass. sez. un. 30.10.2001, n. 13533), inadempimento che deve essere astrattamente efficiente alla produzione del danno (Cass. sez. un. 11.1.2008, n. 577); spetta invece al debitore della prestazione, cioè al medico e alla struttura sanitaria, provare che inadempimento non v’è stato o che è dipeso da fatto ad essi non imputabile (Cass. 20.10.2015, n. 21177) ovvero che, pur esistendo, non è stato causa del danno (Cass. sez. un. n. 577/08 cit.);
C) sussiste nesso causale tra il comportamento del sanitario e il pregiudizio subìto dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico – cd. regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, cioè probabilità logica desumibile dagli elementi di conferma disponibili nel caso concreto e dalla contemporanea esclusione di possibili elementi alternativi (Cass. un. 11.1.2008, nn. 584, 582, 581 e 576; principio di recente ribadito da Cass. 20.2.2015, n. 3390) – si ritenga che l’opera del professionista abbia causato o concorso a causare il danno verificatosi oppure, in caso di condotta omissiva, se quell’opera, ove correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezza-bili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. n. 19133/2004 e n. 4400/2004 citt.);
D) trattandosi di obbligazione di mezzi è la diligenza del debitore e non il conseguimento del risultato a costituire il metro di giudizio: tale diligenza non è quella generica del buon padre di famiglia, ma quella qualificata dell’homo eiusdem professionis ac condicionis, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c. (cfr., da ultimo, Cass. 23.9.2004, n. 19133; 4.3.2004, n. 4400);
E) la limitazione della responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave, prevista dall’art. 2236 c.c. quando la prestazione comporti la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, non trova applicazione se la sua condotta è stata negligente o imprudente (Cass. 1.3.2007, n. 4797; 19.4.2006, n. 9085); sono considerati problemi tecnici di particolare difficoltà quelli che trascendono la preparazione media o che non sono stati ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica (Cass. 2.2.2005, n. 2042);
– che nel caso specifico il rapporto tra la xxx e tutte le strutture sanitarie convenute è pacifico fra le parti e documentato dalle cartelle cliniche dei vari ricoveri prodotte da parte attrice (docc. 1-11);
– che circa l’inadempimento della prestazione occorre prendere in esame la relazione del collegio dei consulenti d’ufficio, composto da xxx e da xxx, il quale ha rilevato che:
(a) la formulazione della diagnosi fu corretta;
(b) l’intervento di artroprotesi dell’anca, adeguato secondo la migliore scienza ed esperienza medico-chirurgica del tempo, fu eseguito “in conformità alle metodiche medico-chirurgiche stabilite dalla prassi e dalla scienza medica, anche in relazione alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale”;
(c) pur nella consapevolezza di una pluralità di cause astrattamente determinanti la lussazione di una protesi (errato posizionamento delle componenti protesiche; gravi squilibri muscolari da lesioni neurologiche o da mancata guarigione della sezione chirurgica; mobilizzazione delle componenti protesiche, con conseguente spostamento delle stesse ed alte-razione del loro rapporto; bruschi movimenti dell’arto operato nel primo periodo post-operatorio, dovuti sia al paziente stesso, sia ad errate manovre fisiatriche durante la riabilitazione), nel caso di specie “dovendosi nell’accertamento del nesso causale in materia civile utilizzare la regola della preponderanza dell’evidenza o del <più probabile che non>, … le recidivanti lussazioni dell’anca, che hanno richiesto numerosi trattamenti anche chirurgici successivi, è assai probabile che siano scaturite da un errato posizionamento della protesi nel corso del primo inter-vento eseguito … presso xxx”;
(d) il danno subìto dalla xxx è quantificabile nella misura di 290 giorni di inabilità temporanea assoluta, in ulteriori 180 giorni di inabilità temporanea parziale al 50% e in postumi permanenti (consistenti nel maggiorato rischio attuale di un nuovo episodio lussativo dell’articolazione coxo-femorale) valutati nella misura del 4%; non v’è danno fisiognomico, né incidenza dei postumi permanenti sull’attività lavorativa (lla xxx era già pensionata al momento dell’intervento di impianto della protesi);
– che tali conclusioni – del tutto logiche, coerenti e adeguatamente motivate – possono essere assunte a base della presente decisione;
– che all’esito delle risultanze della CTU – individuata la responsabilità dei danni riscontrati nell’inesatto posizionamento della protesi durante l’intervento del 29.5.2001 eseguito presso la xxx, escludendo perciò tutti i successivi trattamenti sanitari ai quali la xxx fu sottoposta – vanno respinte, perché non è ravvisabile alcuna responsabilità a loro carico, sia la domanda proposta dall’attrice nei confronti delle altre strutture sanitarie xxx, xxx quale incorporante dell’Azienda complesso ospedaliero xxx, xxx e la domanda proposta contro xxx (il quale non risulta aver effettuato l’intervento del 29.5.2001, il cui nominativo non compare infatti nella relativa documentazione sanitaria, ma – per sua stessa ammissione – solo due fra i numerosi interventi eseguiti successivamente: una revisione della protesi in data 22.7.2004 e una riduzione della lussazione il 5.11.2004, entrambi presso l’ospedale xxx);
– che le censure del dott. xxx e dei suoi assicuratori – relative alla pretesa contraddittorietà delle conclusioni sul nesso causale, dovuta all’asserzione di non poterlo stabilire con certezza, salvo poi determinarlo con criterio di mera possibilità e non di elevata probabilità – non sono condivisibili perché esse sono frutto del raffronto fra le possibili cause note nel caso specifico e nella individuazione, fra esse, di quella più probabile (dunque elevata probabilità e non mera possibilità) secondo le evidenze probatorie in atti;
– che neppure coglie nel segno la contestazione dell’attrice circa la quantificazione dei postumi permanenti, poiché per un verso la stessa xxx non contesta la clamorosa riduzione proposta dal suo CTP (70%) e per altro verso si limita contrapporre una quantificazione dell’8%, senza indicare perché non sia corretta la valutazione del CTU;
– che la quantificazione del danno all’integrità psico-fisica va effettuata alla stregua del criterio di cui all’art. 139 d. lgs. n. 209/2005 (cd. micropermanenti), come prescritto dall’art. 3, comma 3, d.l. 13.9.2012, n. 158, convertito, con modificazioni, nella l. 8.11.2012, n. 189 (cd. decreto Balduzzi);
Tribunale di Roma, Sez. XIII civile, sentenza n. 1348/2017, Giudice dott. Francesco Oddi, inedita.